BILATERALITÀ E FORMAZIONE CONTINUA IN ITALIA:
OPPORTUNITÀ PER UNA NUOVA GOVERNANCE DELLO SVILUPPO
L’attuale sistema formativo italiano si sviluppa in un contesto europeo in cui la formazione è considerata un elemento essenziale per rispondere in modo efficace alle sfide occupazionali che i processi di modernizzazione pongono al tradizionale sistema produttivo, e in cui il conseguimento degli obiettivi posti dall’Europa è esplicitamente collegato all’azione bilaterale.
Fino agli anni Novanta, in Italia, il peso pubblico sulla formazione continua era poco rilevante e la formazione specialistica era affidata a iniziative private, talvolta finanziate con contributi pubblici.
Il sistema formativo istituzionale, gestito dalle Regioni, era tendenzialmente considerato un momento educativo prima dell’ingresso sul mercato del lavoro, orientato ad azioni curative verso l’occupazione o al sostegno di categorie deboli.
Ma, proprio a partire dagli anni Novanta, Governo e Parti Sociali esprimono una serie di iniziative congiunte in materia di formazione continua come funzione professionalizzante a sostegno delle politiche attive del lavoro.
Nell’Accordo bilaterale del 1993 le Parti iniziano a riconoscere che la qualificazione dei lavoratori è essenziale per garantire la competitività delle imprese.
L’accordo rappresenta un punto di svolta, in quanto stabilisce che il metodo bilaterale costituirà lo snodo operativo del nascente sistema di formazione continua italiano.
Nel successivo accordo triangolare di luglio, Governo e Parti Sociali concordano nel considerare essenziale l’avvio della formazione continua, cui prevedono di assegnare specifiche risorse finanziarie.
Dopo oltre dieci anni e ulteriori accordi fra le Parti, solo nel 2004 decollano i Fondi Paritetici Interprofessionali nazionali per la Formazione Continua, la cui gestione è interamente affidata alle Parti Sociali.
I Fondi mettono in campo un nuovo elemento sinora silente e spesso contraddittorio: la domanda sociale di formazione.
Si tratta di una domanda complessa, e di difficile interpretazione, espressione sia delle imprese che del mondo del lavoro, che si incontrano su un terreno non consueto, ancora da sperimentare.
E’ una domanda che dipende dalle specificità localistiche e settoriali delle imprese o delle filiere di imprese, in prevalenza di piccole dimensioni, le quali, per restare sul mercato, adottano strategie competitive differenziate.
A partire dagli anni Ottanta, con la rottura dell’unico paradigma economico dominante, per restare sul mercato, le imprese adottano strategie competitive differenziate di specializzazione, di produzione diversificata e di flessibilità, e la domanda di risorse umane è diversificata e dipende principalmente dalle specifiche strategie adottate.
Cambia la tipologia di capacità richieste, il mestiere codificato viene sostituito dall’esigenza di disporre di lavoratori con capacità di adattamento alle specificità e ai mutamenti della produzione e del mercato: competenze su misura, flessibilità, adattabilità e cooperazione.
L’Italia, pur avendo migliorato la propria posizione negli ultimi anni, è ancora fra le nazioni europee con il più basso tasso di partecipazione della popolazione adulta ad iniziative d’istruzione e formazione. Permangono consistenti squilibri di accesso alla formazione legati sia alle imprese (dimensioni e localizzazione), sia ai lavoratori (età, bassa scolarizzazione, inquadramento contrattuale e genere), con il rischio di accumulare le condizioni di diseguaglianza.
La sfida delle Parti Sociali è proprio cogliere la possibilità di innovazione che le nuove politiche formative offrono alla competitività delle imprese e all’occupabilità dei lavoratori.
Già dagli anni Ottanta, il progressivo ridimensionamento della funzione collettiva di contrattazione del lavoro, a favore di una nuova forma di contrattazione decentrata “su misura”, aveva determinato un cambio di paradigma per le Parti Sociali, che sembrano perdere la storica funzione prevalente regolativa, per acquisire nuove funzioni collegate allo sviluppo delle imprese.
Dalla funzione di regolazione del lavoro, le Parti hanno l’opportunità di diventare attori privilegiati del governo dello sviluppo e contribuire alla crescita di un’economia della “via alta alla competitività”, basata sull’integrazione e sulla qualificazione delle risorse umane, sulla crescita dell’economia della conoscenza e sul ruolo strategico della formazione per l’innalzamento della qualità del lavoro.
La bilateralità, pur prevedendo dispositivi di condivisione nella fase di costruzione dei Piani formativi, risulta ancora molto debole, soprattutto nella gestione dei processi e nella valutazione degli impatti.
Il potere relazionale delle Parti nella gestione dei Piani è fortemente determinato dal presidio di conoscenze tecniche specialistiche.
Nella realtà dei fatti la sottoscrizione del Piani Formativi e la costituzione di un sistema formalizzato di governance bilaterale, il Comitato Paritetico di Pilotaggio, non è garanzia di reale condivisione, dal momento che è frutto di un’elaborazione tecnica, e la sola tecnica non è garanzia di bilateralità. Sia nella fase di analisi della domanda che nella fase di definizione dei fabbisogni formativi le decisioni del management sono privilegiate, e in fase di progettazione manca un momento strutturato per la partecipazione bottom-up dei lavoratori coinvolti.
Emerge anche un aumento dei luoghi della concertazione fra le Parti a livello territoriale, e un inspessimento del tessuto partecipativo, ma ancora con bassa intensità relazionale.
Per concludere, ritengo che il consolidamento di un nuovo governo dello sviluppo, in grado di cogliere pienamente il potenziale di innovazione espresso dalla domanda sociale di formazione, richieda competenze specifiche, tempo, programmazione, pratica e sperimentazione di modelli di concertazione condivisi, in grado di valorizzare le buone pratiche e di metterle a fattor comune.